Il cervello si adatta all’ambiente in cui viene immerso. E così, seduti comodamente sul divano, possiamo indossare un visore che ci trasporta negli am
Il cervello si adatta all’ambiente in cui viene immerso. E così, seduti comodamente sul divano, possiamo indossare un visore che ci trasporta negli ambienti più disparati. Assai rapidamente, siamo in grado di ritrovarci in un luogo oscuro e pericoloso, ricco di insidie e di incertezze, oppure possiamo lasciarci trasportare in un mondo piacevole che ci faccia sentire a nostro agio e che, magari, ci colmi di sensazioni belle e positive.
La realtà virtuale è in grado di porre un essere umano all’interno d’una vera e propria “simulazione esistenziale”. Grazie a essa, l’individuo è in grado di interagire con altri mondi che coinvolgono sinestesicamente tutti i sensi del soggetto. Questo è uno degli elementi cardine della sua efficacia nel trattamento di patologie diverse fra cui molte fobie. È chiaro che un processo simile deve essere guidato da un terapista e svolto all’interno di strutture specificamente progettate per un lavoro terapeutico. La cosiddetta Virtual Reality Exposure Therapy (VRET) ha dimostrato la sua efficacia allorquando si sono somministrati stimoli di paura o situazioni di stress in un ambiente sicuro dove le reazioni fisiologiche e psicologiche possano essere gestite dal terapista.
L’estrema problematicità che scaturisce dalla realtà virtuale sorge nel momento in cui, invece di essere opportunamente dosata in un ambiente medico, essa si presenta (e ciò accade nella maggior parte dei casi) senza alcuna limitazione possibile, esponendo in tal modo il corpo a una pressione insostenibile. Tutto ciò rende l’illusione virtualistica molto più potente e invasiva di quanto non fosse quando ci si limitava a dosarne l’impatto per scopi terapeutici. Il fatto è che la tecnica offre possibilità illimitate mentre il corpo umano, e così pure la mente che lo guida, ha limiti molto precisi. Nello scontro fra la realtà del corpo fenomenico e quella virtuale, si assiste a un corto circuito in cui non è mai il corpo a prevalere.
Nella dimensione virtuale, molto diversamente, si tende a cancellare l’immaginazione così com’era intesa tradizionalmente: l’ambiente a noi circostante viene assimilato in egual misura e quindi realizzato, anzi iper-realizzato. La realtà in quanto esperienza del mondo perde ogni senso. La nostra vita penetra in una programmazione universale, ossia un algoritmo, che tutto gestisce e promuove.
In questo senso, la realtà virtuale segna la soppressione del confronto con la realtà. Il reale era costituito da un oggetto posto davanti alla coscienza, laddove il virtuale annulla il soggetto in quanto coscienza. Perdono di senso le contrapposizioni fra il vero è il falso, fra la realtà e l’immaginazione: tutto è vero e falso, reale e immaginario in egual misura. Si entra in una città elettronica (ECity), ossia uno spazio di iper-realtà, che pone tutto sul medesimo piano ed espelle da sé ciò che in essa non può, non vuole entrare (NoCity). Nella ECity il soggetto e l’oggetto diventano elementi interattivi in cui sono ambedue gestiti dalla tecnica (ho approfondito tali nozioni nel mio ultimo libro: NoCity. Paura e democrazia nell’età globale, Castelvecchi 2021).