Nessuno che abbia bazzicato, anche superficialmente, il mondo della tecnologia nell’ultimo anno può esservi sfuggito: il 2021 è stato senza ombra di d
Nessuno che abbia bazzicato, anche superficialmente, il mondo della tecnologia nell’ultimo anno può esservi sfuggito: il 2021 è stato senza ombra di dubbio l’anno in cui concetti come criptomonete, blockchain e web3 sono definitivamente usciti dall’ombra, imponendosi sul discorso pubblico. Nft è stata scelta come parola dell’anno dai dizionari collins. Soltanto negli ultimi dodici mesi, i venture capitalist hanno investito oltre 27 miliardi di dollari nelle criptovalute. E a Washington si sta già esercitando pressione per influenzare la regolamentazione di realtà virtuali che, se non molto limitatamente, ancora non esistono.
Una questione centrale è il fatto che, per mantenere il valore di criptovalute e token e guadagnarci sopra, i progetti web3 impongono una sistema di scarsità artificiale in un mondo – quello di internet – dove i contenuti sono teoricamente infiniti. O, per dirla con il programmatore Stephen Diehl, “stiamo passando dal mondo dell’abbondanza nel cloud computing, dove il costo del tempo di calcolo per persona era quasi ai livelli post-scarsità, al tentativo contrario di imporre una scarsità artificiale sulla risorsa più abbondante che l’umanità abbia mai creato. Questa è regressione, non progresso”.
Dal punto di vista tecnico, spiega Diehl, le reti basate sulla blockchain non possono crescere fino a raggiungere grandezze di scala senza assumere la stessa forma dei sistemi centralizzati e tendenti al plutocratico che, in teoria, si vorrebbero sostituire. E finiscono per costare molto di più. “Per creare un ipotetico Facebook decentralizzato ci sono diverse questioni logistiche ineludibili”, scrive poi il programmatore: “Chi pagherà per i data center globali per contenere i contenuti?Chi bandirà gli account dei nazisti? Chi eliminerà i contenuti pedopornografici? Chi reimposterà la password della nonna quando la dimentica? Gestire un’attività globale su questa scala richiede una quantità inevitabile di centralizzazione solo per il fatto duro e crudo di dover esistere e interagire con il resto della civiltà”.
La truffa è dietro l’angolo
A preoccupare è anche il fatto che per comprendere appieno il web3 e non essere abbagliati dalle tante truffe che esistono nel mercato delle criptovalute c’è bisogno di una conoscenza approfondita di settori complessi come quello della finanza e del tech.
Diehl la mette in modo molto meno edulcorato: per lui, il web3 non è altro che “un paradiso per i truffatori con un casinò 24 ore su 24, 7 giorni su 7, costruito su un’esplosione cambriana di slot machine, ognuna basata su un diverso aspetto della cultura umana, cooptato per incentivare il gioco d’azzardo. È l’apoteosi del capitalismo, in cui il mercato trasforma ogni meme, ogni celebrità, ogni movimento politico e ogni opera d’arte in un gioco finanziario, con ogni tribù in competizione l’una contro l’altra in una guerra tutti contro tutti per l’iperfinanzializzazione di tutta l’esistenza umana”.
Lungi dall’essere la soluzione ovvia ai problemi delle piattaforme attuali, in cui immense tech company hanno l’ultima parola sui nostri profili e rendono molto difficile monetizzare i propri contenuti online a meno che non si
abbia un grande numero di follower, il web3 finisce per arricchire quasi esclusivamente i soliti noti. Come spiega sempre Stephen Diehl, le criptovalute agiscono al momento come “una gigantesca tassa regressiva che trasferisce denaro dai poveri e dagli analfabeti, a early adapter, investitori e tecnologi. L’unico vero obiettivo finale è ricreare il sistema che già esiste, ma con nuovi giocatori che lo controllano“.
Della stessa idea sembra essere Jack Dorsey, il fondatore di Twitter. “Il web 3 non appartiene a voi. Appartiene ai venture capitalist e alle loro limited parternship”, ha twittato recentemente: “Alla fine dei conti sarà un’entità centralizzata con un nome diverso. Siate consci di quello verso cui state andando incontro…”.
C’è, poi, l’ultimo grande punto, che riguarda anche chi non si interessa minimamente del futuro di Internet e non ha il tempo, i soldi o l’interesse necessari a seguire gli sviluppi del web3: la questione ambientale. Mantenere la blockchain richiede un livello di potenza di calcolo che consuma serissimi quantitativi di energia: basti pensare al fatto che c’è chi ha acquistato intere centrali elettriche per sostenere il mining delle proprie criptovalute.
Secondo i calcoli del Cambridge Bitcoin Electricity Consumption Index, questo settore ancora agli inizi consuma già più energia di molti piccoli Paesi. Alcuni progetti si sostengono con l’energia rinnovabile, ma nella schiacciante maggioranza dei casi l’onere energetico del web3 grava su un sistema che fa già enorme fatica ad allontanarsi dalla dipendenza da combustibili fossili.