Lunedì alla Cop26 di Glasgow si è parlato di metano e alberi. L’Indonesia, casa di un terzo delle foreste pluviali del mondo, era tra i cento e più Pa
Lunedì alla Cop26 di Glasgow si è parlato di metano e alberi. L’Indonesia, casa di un terzo delle foreste pluviali del mondo, era tra i cento e più Paesi (Brasile incluso) ad aver firmato un patto per mettere la parola fine alla deforestazione entro il 2030. Il primo ministro britannico Boris Johnson ha salutato l’avvenimento come una vittoria, dato che il patto copre l’85% delle foreste al mondo. Ma giovedì la ministra dell’ambiente indonesiana Siti Nurbaya Bakar ha definito il patto “improprio e iniquo” e aggiunto che “non possiamo promettere l’impossibile”.
La questione economica
Energia, progresso economico e intere industrie si basano sul modello attuale e rivoluzionarle in breve tempo rischia di portare all’avversione dei cittadini – specie se si tratta di un Paese emergente. L’Indonesia, nella fattispecie, dipende molto dal carbone da legno ed è il più grande esportatore di olio di palma, che serve per lo shampoo come per i biscotti; solo nel 2019 ha bruciato un’area pari a metà del Belgio per le piantagioni, anche se ha smesso nel 2018 di garantire nuovi permessi e ha ridotto la deforestazione del 75%.
“Fondamentalmente, le foreste del mondo non saranno salvate da una dichiarazione politica”, ha detto l’ente dedicato Forest Stewardship Council (Fsc) a Deutsche Welle, “a meno che [questa] non sia seguita da specifiche iniziative politiche e finanziarie per rendere la protezione delle foreste e la gestione sostenibile delle foreste soluzioni economicamente attraenti per le persone che dipendono dal foreste per il loro reddito e sostentamento”.
Le sfaccettature del problema (e la soluzione)
Riassumendo brutalmente, ripiantare miliardi di alberi per sconfiggere il
cambiamento climatico (un’ipotesi che ha ripreso a circolare di recente) non funziona per una miriade di fattori. La deforestazione ha molteplici cause, se in Indonesia ha a che fare con l’olio di palma in Brasile riguarda soprattutto lo spazio per la coltivazione della soia che serve per il mangime degli animali in tutto il mondo. Ovvero, mangiare carne contribuisce direttamente al problema.
Non esiste una soluzione univoca anche per via dei limiti naturali. Gli alberi sono cruciali nell’assorbimento della CO2 (circa 7,2 miliardi di tonnellate all’anno, circa un terzo di quella prodotta) ma se vengono bruciati liberano nuovamente tutto nell’atmosfera. Anche la terra, che contiene più CO2 di alberi e aria assieme, rilascia in caso di sradicamento. Ma se si pianta un albero dove sarebbe cresciuto naturalmente, non si allevia il problema della CO2.
Le capacità degli alberi di sottrarre CO2 dall’atmosfera vanno ancora capite pienamente, complici le complessità degli ecosistemi. C’è anche un problema di spazio: servirebbe riforestare metà delle terre emerse solo per bilanciare le emissioni odierne degli statunitensi, spiega Gates, mantenendo vive e sane quelle piante per lunghi periodi di tempo: un albero che marcisce rilascia parecchia anidride carbonica. Senza contare che una foresta in territori molto freddi può riscaldare il pianeta anziché raffreddarlo (il colore scuro assorbe il calore, la neve lo riflette). In sostanza, il potere decarbonizzante degli alberi è stato sopravvalutato.
La soluzione passa per forza di cose dalla riduzione delle emissioni e dal mantenimento delle foreste esistenti – ripiantando dove si è disboscato e assicurandosi che le catene di produzione globali non provochino deforestazione altrove. Serve mangiare meno carne (da lì non si scappa), disincentivare il disboscamento e promuovere la riforestazione mettendo più denaro sul piatto, onere che tocca soprattutto ai Paesi sviluppati (se non per la disponibilità di fondi, per il “debito storico” di CO2 emessa che ne ha permesso lo sviluppo). Tenendo bene a mente che tra la decrescita economica e il bruciare legna, i Paesi emergenti non possono che scegliere la seconda.
Fonte: Formiche.net