Nelle scorse settimane Bitcoin, la più famosa delle criptovalute, ha superato la soglia psicologica dei 50.000 dollari. Mentre scrivo, un Bitcoin vale
Nelle scorse settimane Bitcoin, la più famosa delle criptovalute, ha superato la soglia psicologica dei 50.000 dollari. Mentre scrivo, un Bitcoin vale 59.113,25 dollari. Le ragioni per questa crescita sono diverse. Alcune sono speculative, ludiche, o magari scientifiche: si può investire in Bitcoin come si gioca alla roulette, o anche solo per studiare come funziona. Altre sono legate alle tre funzioni di tutte le monete, siano esse conchiglie o banconote: unità di conto (come misura del valore dei beni e dei servizi), deposito di valore, e mezzo di pagamento.
La funzione di unità di conto è banale aritmeticamente, basta immaginare prezzi in Bitcoin invece che in Euro. Ma è problematica economicamente, perché la volatilità delle criptovalute genera instabilità e incertezza sul valore dei beni e servizi misurati nel tempo. In termini di funzione di deposito di valore, Bitcoin assomiglia a una sorta di oro digitale, con alti rischi ma anche possibilità di enormi “ritorni” (return on investment), attraenti in tempi di scarsi rendimenti di altri investimenti. Su Coinbase, una delle principali piattaforme/app per le criptovalute, il tempo medio tra l’acquisto e la vendita di Bitcoin (typical hold time) è attualmente 62 giorni, un’eternità quando i riposizionamenti si misurano in ore. Ci sono poi notizie, come l’acquisto da parte di Tesla di $ 1.5 miliardi in Bitcoin a febbraio, che aumentano la percezione di Bitcoin come un asset interessante. Quanto alla funzione come mezzo di pagamento, lo scorso novembre PayPal ha annunciato che, dall’inizio di quest’anno, i suoi 377 milioni di conti/utenti potranno usare criptovalute, interagendo con 29 milioni di commercianti senza commissioni aggiunte. Anche questo ha contribuito a far crescere il valore di Bitcoin. Infine, ci sono ragioni generazionali. Bitcoin ha 12 anni e, per i ventenni, le criptovalute sono parte del quotidiano, come il conto corrente postale per me da ragazzo. Per loro la sorpresa è sentirsi dire che uno non ha un wallet come MEW al quale farsi inviare un pagamento in Ethereum (ETH, la seconda criptovaluta più importante).
E la novità non sono le criptovalute, ma che cosa ci si può fare, attraverso la decentralised finance (finanza decentralizzata, DeFi) e quella che recentemente ho chiamato decentralised insurance (assicurazione decentralizzata, DeIn) al convegno dell’Istituto per la Vigilanza sulle Assicurazioni su Innovazione digitale, ecosistema assicurativo, inclusione e mutualità. La DeFi è una finanza che usa contratti intelligenti (smart contracts basati su blockchain) per offrire servizi e prodotti evitando qualsiasi istituzione centrale o intermediaria come una banca. I contratti si basano di solito su ETH che, a differenza di Bitcoin, serve per far funzionare la rete di scambi. Se Bitcon è l’oro digitale, ETH è l’oro nero digitale. Attraverso la DeFi si può investire in criptovalute, prestare o prendere in prestito fondi, guadagnare interessi in un conto di risparmio, utilizzare derivati, e così via. I meccanismi sono quelli tipici della finanza, potenziati dalla flessibilità, velocità, e interoperabilità del digitale. La DeFi non è una novità. Nasdaq ha un servizio di indicizzazione dedicato, il DEFX (Decentralized Finance Index), dal 2019. A gennaio 2021 si calcolava che il valore globale della DeFi fosse di 15 trilioni di dollari. Ma si tratta di un mondo ancora emergente, basti pensare che il 21 marzo, la voce su Wikipedia in italiano allertava che: «]…] non è chiaro se [DeFi] sia un concetto teorico, una classificazione usata abitualmente o una qualche utopia».
Il dibattito si è spostato da che cosa sono le criptovalute, come funzionano e che valore hanno, a come possono essere usate come strumenti finanziari. La questione successiva riguarda l’incertezza e il rischio. La DeFi con i suoi estremismi (nelle perdite, nei guadagni, nella velocità, nelle oscillazioni, nelle innovazioni tecniche, nello sviluppo regolativo, nel tipo e numero di operatori etc.) moltiplica opportunità e rischi. Per chi vuole mitigarli la soluzione è tradurre il rischio in costo, cioè assicurarsi. In questo caso si parla di Insurtech, ma in realtà questo termine è spesso usato, come nel caso di FinTech, per analizzare l’innovazione digitale nel settore assicurativo (si pensi all’uso dei dati per personalizzare le polizze), non lo specifico settore dei nuovi modelli blockchain per servizi assicurativi, o che cosa possa fare l’assicurativo per il digitale (si pensi alla protezione contro i rischi di cyberattacco). Nexus Mutual è una delle poche realtà nella DeIn. Ma il modello di business è già chiaro. Le assicurazioni più “sicure” da offrire sono quelle dove la perdita è verificabile: l’incendio dell’automobile si dimostra molto meglio del furto dell’orologio del bisnonno. E qui il digitale aiuta in due modi. Permette di usare l’affidabilità e la tracciabilità della blockchain per assicurare assets anch’essi digitali basati su blockchain. Il digitale assicura il digitale anche perché può dimostrarne la perdita. Questo genera a sua volta altre forme di business, perché diventa normale investire in aziende che offrono servizi DeIn. Inoltre, il digitale assicura l’analogico quando può tracciarlo, come nella proposta di Etherisc, che usa un sistema distribuito (oracle) come Chainlink, per controllare informazioni pubbliche online, per esempio se un volo aereo è stato realmente cancellato, e quindi rilasciare il rimborso immediatamente. Il rischio è la pressione a rendere pubblici dati per la verificabilità di una perdita, per esempio la necessità di rendere tracciabile una bicicletta per poterla assicurare contro il furto.
Alla complessità del mondo analogico si sta affiancando quella del digitale. Tra complementarità e competizione, l’innovazione dovrebbe svecchiare il sistema finanziario, bancario e assicurativo, che infatti sta sperimentando esso stesso soluzioni blockchain. In questa tensione tra vecchia e nuova complessità, quattro D sono cruciali. La decentralizzazione porta alla disintermediazione delle vecchie strutture di garanzia e fiducia, sostituite da nuovi intermediari nella gestione delle nuove complessità. Queste due D sono rese possibili dalla defisicalizzazione della moneta: il digitale offre la traccia fisica minima per poter realizzare le tre funzioni fondamentali. Purtroppo, questa D ha costi ambientali altissimi. Si calcola che solo Bitcoin abbia lo stesso impatto ambientale di tutta la Nuova Zelanda, 36,95 megatonellate di CO2 annue. In confronto, nel 2018, la Banca Centrale dei Paesi Bassi ha calcolato che il Global Warming Potential (GWP) dei pagamenti in banconote e monete è stato di 17 milioni kg di CO2, pari a 0,009% del GWP del paese. Per avere un futuro, le criptovalute dovranno diventare anche sostenibili. L’ultima D è quella della diffusione intesa come democratizzazione dell’accesso ai servizi, prodotti e risorse facilitato dalla DeFi e dalla DeIn. Al momento è quasi solo retorica, dato il livello di competenze, investimenti e infrastruttura richiesto per trarre vantaggio da queste novità. Ma in futuro, sarà forse più facile raggiungere persone fino ad oggi escluse, e magari aiutarle a ridurre la loro esposizione ai rischi e quindi facilitare la realizzazione dei loro progetti, se il mondo finanziario digitale non finirà come quello analogico, arricchendo solo coloro che sono già ricchi di risorse e opportunità. Forse. Intanto ho appena ricontrollato il prezzo di Bitcoin: 57.296,49 dollari. Ha perso il 3,20%.
Fonte: www.corriere.it